Perché è necessario che gli organi di informazione disinformino!

La televisione ha una specie di monopolio di fatto sulla formazione dei cervelli di una parte considerevole della popolazione. (Pierre Bourdieu)

É necessario che gli organi di informazione disinformino, gli organi di informazione non possono informare. Questo è chiaro. Nei giorni in cui scrivo ci sono state delle manifestazioni di piazza. Poche ore fa la ministra dell’Interno Lamorgese ha dichiarato “dal 24 ottobre al 10 novembre ci sono state 700 proteste legittime, ma attenzione a chi si infiltra per creare disordini“. Di tanto in tanto capitano eventi di questo genere e, puntualmente, si ripete la celebrazione di una narrazione alterata di ciò che in realtà accade. Per il senso di questo articolo non è nemmeno necessario che mi soffermi sulle specifiche motivazioni che animano questa o quella manifestazione. Mi interessa comprendere più in generale le “modalità di funzionamento“, affinché possa più facilmente individuarle quando si ripresenteranno innanzi ai miei occhi. Penso che gli organi di informazione non possono trasmettere verità. Cerchiamo insieme di capire se le cose stanno davvero così, perché accade, e perché è stupido attendersi qualcosa di diverso.

Quando la popolazione scende in piazza a manifestare quello che effettivamente fa è comunicare dissenso e conflitto, una idea contrapposta a quella istituzionalmente imposta. Lo storytelling che ne consegue è sempre il medesimo: i disordini di piazza, gli scontri, l’intervento della polizia, la sedazione con la forza del disordine. Quella che scompare dall’informazione è la narrazione dell’evento, l’alterità, il racconto e le spiegazioni delle motivazioni della manifestazione, i motivi di dissenso, i perché ed i contenuti contro cui si prende posizione.

Lasciate perdere gli studenti dei licei, perché pensate a cosa succederebbe se un ragazzino rimanesse ucciso o gravemente ferito… Invece, lasciate fare agli universitari. Ritirare le forze di Polizia dalle strade e dalle Università infiltrare il movimento con agenti provocatori; che devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di Polizia e Carabinieri. (F.Cossiga)

Il sistema istituzionalizzato degli organi di informazione racconta la violenza, talvolta si sofferma sui “curricula” personali di questo o quel violento, sino ad offuscare le migliaia di manifestanti pacifici e le ragioni della manifestazione stessa. In tante circostanze sussiste più di un dubbio che i fatti violenti possano, persino, essere fomentati o eseguiti da elementi sistemici, emanazioni proprio dei poteri contro cui si manifesta. Per creare confusione, scontro, depotenziare, generare disorientamento, allontanare la partecipazione generale della gente ad aderire a reti di dissenso, e costruire il materiale utile agli ormai noti racconti standardizzati sui canali mainstream. Era stato il Presidente della Repubblica Italiana, Francesco Cossiga, a mettere in parole esplicite il consiglio d’infiltrare nei cortei dei soggetti armati e violenti, per evocare le maniere forti da parte delle forze dell’ordine, e così sedare il dissenso attraverso il manganello.

Serve una vittima e poi si potranno usare le maniere forti […] Per il consenso serve la paura. Un’efficace politica dell’ordine pubblico deve basarsi su un vasto consenso popolare, e il consenso si forma sulla paura, non verso le forze di polizia, ma verso i manifestanti. Un grave errore strategico reagire con cariche d’alleggerimento, usando anche gli sfollagente e ferendo qualche manifestante. Si tratta di disporre che al minimo cenno di violenze di questo tipo, le forze di Polizia si ritirino. L’ideale sarebbe che di queste manifestazioni fosse vittima un passante, meglio un vecchio, una donna o un bambino, rimanendo ferito da qualche colpo di arma da fuoco sparato dai dimostranti: basterebbe una ferita lieve, ma meglio sarebbe se fosse grave, ma senza pericolo per la vita. La gente deve odiare i manifestanti. farebbe crescere fra la gente la paura dei manifestanti, con la paura l’odio verso di essi e i loro mandanti.  Io aspetterei ancora un po’ e solo dopo che la situazione si aggravasse farei intervenire massicciamente e pesantemente le forze dell’ordine contro i manifestanti. (F.Cossiga)

Al contempo – questo aspetto è interessante – una parte della popolazione e sicuramente i manifestanti pacifici, non si capacitano del perché una grande manifestazione sensata, motivata, voluta ed ampiamente partecipata debba essere dimidiata e raccontata come una rissa. Si indignano, si arrabbiano e sono delusi. Tutte le volte.
Perché il racconto che si fa alla nazione è così smodatamente sbilanciato sui violenti ed i loro atti?
Quando si contesta un Governo, una decisione che appare contro l’interesse generale, quando si contrasta un interesse privato di soggetti molto potenti, quando si manifesta contro una entità militare o un sistema economico consolidato o si esprimono opinioni contrarie all’area editoriale/comunicativa di un giornale o una tv, bisogna considerare chi sono gli editori degli “organi” di “informazione”.

Tutta l’informazione mainstream avrà sempre posizioni a favore del capitalismo, non accoglierà posizioni contro l’ueismo (lessicalmente manipolato in europeismo), giustificherà l’uso della forza da parte di eserciti e polizia – dentro e fuori i confini nazionali, esprimerà pareri uniformanti in tema sanitario e vaccinale – a prescindere – e certamente non darà voce a posizioni largamente condivise dalla popolazione come per i movimenti NO-Muos o NO-Tav. Mai sarà dato consenso all’espressione di una idea divergente che emerge dalla protesta.
Tutto questo è normale, esattamente è nella norma. Indignarsi o sorprendersi appare stupido. Queste reazioni, il malcontento diffuso su questo o quel social network da parte dei partecipanti alle manifestazioni è, a mio parere, l’ennesima conferma della mancanza dei concetti fondamentali della comunicazione.

Come ci si può attendere una copertura mediatica, o almeno una narrazione dignitosa, da parte dei grandi media quando le manifestazioni di protesta sono indirizzate verso quel sistema di potere che conduce e finanzia i media stessi?
Quando chi si contrappone urla contro il nome del regnate, se la parola d’ordine della protesta è la lotta al sistema neoliberista-economico-finanziario, quando si manifesta sofferenza per un iniquo sistema fiscale, quando la piazza pretende il rispetto dei diritti sociali più dei pareggi di bilancio, quando il popolo chiede che non si paghi un debito ingiusto maturato nell’interesse di chi ha governato, ci si aspetta che La Stampa, Repubblica, Canale5 e Rai1 diano voce a queste istanze? Oppure lo farà Libero, il Giornale o il Fatto Quotidiano? Forse il Foglio o il Corriere della Sera? I grandi gruppi editoriali italiani sono privati, mentre la tv pubblica di Stato è totalmente nelle mani dei partiti, ed i partiti nelle mani della finanza. L’intero sistema dei media è evidentemente sottoposto alle deliberazioni del capitale, del mercato, della finanza internazionale fattasi forma di governo e dei suoi illiberali conduttori. L’informazione sopravvive di finanziamenti, corposi prestiti e potenti editori che fagocitano le notizie per restituire colate di interesse personale e notizie partigiane.
Quant’è stupido indignarsi dell’assenza di obiettività dei media? Com’è ridicolo sorprendersi del fatto che gli organi di informazione esistono per non raccontare i fatti?

Mi chiedo dove stia e quanto sia ampio lo iato tra l’accadente ed il desiderato, tra ciò che realmente avviene e quello che è auspicabile. Soprattutto mi interrogo sul fatto che tanta gente abbia aspettative e riponga fiducia in organismi che evidentemente non possono garantire alcunché. Penso che l’aspettativa tragga ragion d’essere da una mal riposta speranza e da un radicale malinteso: che sia ineluttabile raccontare un evento largamente partecipato, che una partecipazione numerica cospicua necessiti di essere raccontata, che il numero sia forza, che il valore mediatico di una manifestazione si debba commisurare al livello di partecipazione.

Stupidaggini, ovviamente.

Nella società del politicamente corretto coloro che non si allineano al pensiero unico vengono da tempo denigrati, perseguitati e marchiati con etichette diverse e tuttavia sempre denigratorie, per incasellare appunto il dissenso […] sotto l’etichetta denigratoria di “negazionista” ma anche “complottista” rientra chiunque critichi la versione ufficiale della narrativa mainstream o si permetta di dissentire dai provvedimenti governativi“. (Enrica Perucchietti). La storia dei media ha già dimostrato che una piazza stracolma di gente, qualora venga raccontata, può essere etichettata gratuitamente con termini sminuenti o offensivi di vario genere, “nazisti“, “terrapiattisti“; si può trasformare il senso delle parole deturpandolo e sconvolgendone il significato “populisti“, “sovranisti“, oppure il dissenso può essere etichettato con parole come “giritondini“, “disobbedienti“, “forconi“, “negazionisti“. Fanno così.
Ad esempio, l’enorme movimento dei gilet gialli dai media italiani non è stato raccontato per un tempo lunghissimo. Quando è stato rappresentato – in notevole ritardo – la narrazione è stata sminuente, superficiale, senza alcuna attenzione alle motivazioni che animavano il dissenso, con una scrupolosa sequela di immagini variamente violente. La gente, però, sia in Francia che negli altri Paesi riusciva ad avere comunque contezza degli accadimenti, poiché le reti digitali mettono in contatto gli individui. Così si rendono conto di essere in tanti a condividere idee e sentimenti assenti e non rappresentati nei media ufficiali: questo è il principio stesso della ‘rete sociale’.
In Italia, Repubblica, messa alle strette dagli eventi, raccontava Parigi invasa da fascisti sotto la bandiera con la svastica mentre, in Francia, Macron valutava l’opportunità di riuscire a censurare la comunicazione su Facebook. La comunicazione diretta tra individui è un po’ più complicata da indirizzare rispetto a quella dei grandi media. Allo stesso modo, però, Twitter ha recentemente censurato le esternazioni di Trump, Presidente in carica degli Stati Uniti, dopo le sue ultime elezioni, arrogandosi il diritto di dichiararle “fake news“. I due casi non sono molto diversi: un potere tende a sedare l’altro quando vi è un dissenso dalla narrazione prevalente.

Così ritorna ancora la domanda: come si può confidare che i media raccontino il dissenso, supportino il cambiamento e sostengano le istanze che provengono dal popolo, dalle parti più deboli e bisognose dell’umanità? Non possono.

L’etica, la ricerca giornalistica, l’analisi obiettiva, l’informazione informata, l’imparzialità sono attitudini di singoli giornalisti, forse di un caporedattore o persino del direttore di una testata. Non sono la caratteristica dei media, mai, e non possono costituire oggetto di aspettative. L’etica e l’obiettività si devono confrontare con l’interesse, l’opportunità, le direttive del finanziatore, del partito politico, del potere sovrastante.

Per questo chi protesta contro il capitalismo e in generale chi manifesta contro il sistema politico ed economico deve smettere di pensare ai media tradizionali come sponda, aiutante, facilitatore. Non ci sarà alcun aiuto. Non serve parlare per comunicati, perché il comunicato è il simbolo della logica di processo che si dice di voler combattere. (D. Amenduni)

 

 

FMG

 

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[Aggiornamento 28-11-2021]

Pare utile riportare il pensiero espresso attraverso una tv nazionale (La7), e riportato da tutti i quotidiani nazionali, dall’ex Presidente del Consiglio d’Italia, senatore a vita, Mario Monti.

Deve essere il governo a dosare dall’alto le notizie […] Noi ci siamo abituati a considerare la possibilità incondizionata di dire qualsiasi opinione come un diritto inalienabile ma… […] Bisogna trovare delle modalità meno democratiche nella somministrazione dell’informazione. […] Ci siamo già in questo.
(M. Monti)

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